Cartolina da Marettimo, posto da foche e da pirati

Viaggio nell' isola delle Egadi "tanto verdeggiante che non la si indovinerebbe mai tra quelle della Sicilia"

di Federico Di Vita

In questi giorni Marettimo mi è apparsa in sogno. Appena sbarcato sul molo dello Scalo Nuovo – Oh Mein Gott, I’m finally back mia amata Marettimo – ecco alla mia sinistra dondolare come fiori di loto in uno stagno le piccole barche dei pescatori nell’acqua lapislazzuli, subito oltre il grumo di case candide e sopra il monte, altero e verdeggiante, graffiato da una lama di luce che si fa spazio tra nuvole rade. Nel sogno cammino verso il borgo e vedo tutto nitidamente, conosco bene Marettimo e non so quando potrò tornarci, la separazione dal suo incanto mediterraneo è destinata a durare.

Mi chiedo come sia la quarantena qui, in un’isola così remota, “stai tranquillo, non si scappa da Alcatraz”, mi disse una volta un pescatore ironizzando sul fatto che lo rassicuravo dopo essermi reso conto di dover recuperare a casa parte dei soldi che gli dovevo per un’aragosta. L’inverno qui deve essere una quarantena permanente ma senza l’angoscia che ci ha attanagliato in questi mesi, l’isola si consegna alle altre stagioni col suo villaggio di pescatori ancora vivo, ancora attivo – è un viaggio nel tempo venire a Marettimo – ma senza il sovraccarico dei turisti, mai eccessivo per altro, pronta ad attraversare i mesi che congiungono un’estate all’altra abitata da poche centinaia di persone, padroni di un’isola maestosa e selvaggia.

Torno nel sogno, ora vedo l’isola di Marettimo dal mare. Le vette sono di nuovo incoronate da fasci di nubi filanti, rendono omaggio ai monti silvestri, Marettimo rivela così l’aspetto altero e selvaggio di un piccolo Olimpo, di un vulcano polinesiano. Un attimo di scollamento percettivo si palesa in forma di déjà-vu, un miraggio mi riporta a Rarotonga.

Marettimo, che rivelazione ogni volta!

Lo sguardo ora torna al villaggio che ha viaggiato nel tempo, armonioso nella sua stretta distesa di costruzioni orlate d’azzurro, mai lezioso, il suo grado di verità è definito dagli intonaci scrostati, dall’impiantito un po’ scassato, dal parapetto della balaustra che difende il lato più esposto al mare aperto, mangiato dalle ondate e poi ancora dai mucchi di reti rosse in cui ci si imbatte tra i vicoli, con tre generazioni d’uomini – i più piccoli, bambini – a riannodarle in vista della pesca notturna. A forza di tornare quelle reti si impara a riconoscerle: quelle per le aragoste, per esempio, hanno le maglie più larghe e il filo più spesso. Gli uomini nei crocicchi parlano del vento, qualcuno fuma, i profumi invadono le strade. Sapreste indicarmi in Europa un altro borgo marinaresco vivo come questo? Io non saprei farlo, gli altri sono diventati leccate mete turistiche.

Marettimo, isola delle Egadi, mi fa pensare a una cittadina di balenieri che ho visitato alle Azzorre anni fa, nell’isola di Pico, dove tutto è rimasto come era cinquant’anni fa, quando da Lages le imbarcazioni ancora salpavano a caccia di cetacei. Tutto lì è rimasto uguale ma oggi tutto è simulacro – per fortuna le balene non si cacciano più in quell’arcipelago – e il paese non è altro che un memoriale per viaggiatori: Marettimo no, Marettimo è viva.

Schiava dei venti, l’isola si rivela quando vuole. 

L’isola è un posto da foche (si avvistano ancora) e da pirati. Entrambi attratti dalle tante grotte a mare che si spalancano sui versanti sontuosi di una montagna di granito rosa che affonda nei flutti con la maestà di una dolomite. Navigo in paesaggi indimenticabili, su un mare color zaffiro, di una tonalità rarissima a un palmo dalla costa e che qui troviamo subito, a contatto con la roccia che cala a strapiombo. L’incontro tra la vertigine di pietra e l’acqua definisce il colore di quest’ultima e porta in scenari da Mare del Nord. Gettando intorno lo sguardo si è quindi incantati dal profilo glorioso di un’isola tanto verdeggiante che non la si indovinerebbe mai tra quelle della Sicilia. Ora rivedo le grotte una a una: quella del cammello, quella del tuono, la grotta della pipa, la grotta perciata, la grotta della ficaredda, quella del presepe e quella della bombarda – le forme che ne dettano i nomi sembrano frutto di una visione eppure le grotte sono lì, con le loro camera-trap per le foche e le spiaggette oscure, perfette per le barche che volevano far perdere le proprie tracce. Sopra la volta delle grotte, all’esterno, capita di scorgere dei mufloni o delle capre inerpicati in pendii impossibili, intenti a leccare il sale.

Ancor oggi pescosissima, sebbene i pescatori lamentino i confronti col passato basta paragonare il frutto del loro lavoro con quello di altri, di Marettimo è indimenticabile anche il piatto tipico: un’inusuale zuppa di aragosta, tra i cui ingredienti spiccano la dolcezza della cannella e quella delle mandorle tritate.

Schiava dei venti, l’isola si rivela quando vuole. Persa nell’alto mare, se spirano forti è impossibile raggiungere gli altri versanti, risulta così legato al capriccio naturale il periplo dell’Isola sacra, e questo essere in balia degli elementi è un ulteriore grado di verità. L’isola sacra – Hierà Nésos – era infatti un rifugio apprezzato nel cuore del Mediterraneo per l’abbondanza delle fonti d’acqua dolce, e la sacralità pare si debba proprio a queste. Oggi il nome di Marettimo, secondo Pippo – vera istituzione tra i pescatori locali – dipenderebbe dalla crasi di mare e timo, un’essenza frequente nella varia e splendida macchia che dipinge i versanti della montagna. Non credo all’attendibilità di questa etimologia ma la trascrivo già carico della nostalgia che mi assale di fronte alla prospettiva, comincio ormai a svegliarmi, di dover lasciare anche stanotte la mia bellissima, amata, remota, schiva e fiera Marettimo. Ci rivedremo, isola amica, tornerò in carne e ossa a stupirmi della tua diversa meraviglia.

Per gentile concessione di ELLEDECOR
Foto di Federica Soprani

 

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