Purpu ri mari

Racconto scritto in occasione del corso di scrittura creativa della Sicily Summer School 2019

di Elena Gebbia

Il mio animale totem, per così dire, è il polpo. L’ho capito a otto anni e me lo sono tatuato di fianco al cuore a diciotto, in un negozietto a Torino in cui sono entrata per puro caso. A otto anni era la mia ottava estate a Favignana e in un certo modo vago avevo già capito di appartenere a quell’isola nello stesso modo in cui le appartenevano il mare gelido, il vento e i polpi. Purpi, in siciliano. Mi pare fosse agosto, la mia pelle era scura, i capelli pieni di nodi. Le piante dei piedi erano indurite dalle camminate sugli scogli e mi portavano sempre un po’ di polvere di scoglio nel letto, che io non scacciavo. Quel pomeriggio nonno Enzo mi passò a prendere dopo il riposino. Mia madre mi aveva già riempita di crema solare e sentivo la mano scivolosa in quella ruvida di nonno.

“Oggi ti porto da un amico mio che non vede l’ora di conoscerti”, aveva detto. Lo riconobbi subito, era l’uomo che nella mia testa avevo soprannominato Riccioli d’oro. Scoprii che si chiamava Gaetano Parisi, detto lu siccu. Lui e mio nonno si salutarono, risero forte per qualcosa, mentre io guardavo il mare che si ingrossava. Ogni schiaffo d’acqua sugli scogli mandava sulla mia faccia gocce d’acqua e sale piccole come briciole che leccavo dalle labbra. Anche l’odore del mare cresceva con le onde, sperai che mi si attaccasse ai vestiti per poterlo portare a Torino quando sarei partita. Lu siccu ci portò sulla sua barca da pesca, un mozzo che ne aveva viste tante. 

Nei giorni di mare liscio sembrava così vicina da poterla raggiungere a nuoto

Saremmo andati al Preveto. “Un’ìsuletta di poco staccata da Favignana, nella parte sud”, mi spiegò con la sua parlata rapida. Nei giorni di mare liscio sembrava così vicina da poterla raggiungere a nuoto, quel pomeriggio sembrava quasi sparire quando le onde la colpivano. La barca tagliava l’acqua, io stavo in piedi tra le ginocchia di nonno e piegando le gambe assecondavo il mare. Gaetano teneva la barra del timone con una mano sola e fischiettava una melodia che non ho mai più sentito, forse la stava inventando sul momento. Nonno mi aveva messo in testa il suo cappello di paglia e lo teneva stretto perché non volasse via. La barca rallentò, il mare aveva cambiato colore. Grappoli di meduse biancastre a venature rosa e viola galleggiavano a pochi centimetri dalla superficie. Tentacoli di tutte le lunghezze si scontravano abbandonati al ritmo delle onde. La barca si fermò del tutto e Gaetano gettò l’ancora. “Qui sotto c’è la tua cena, picciridda”. Io ero ipnotizzata dalle meduse, dal loro movimento molle, ma sapevo quanto potevano fare male sulla pelle. Nonno ruotò le gambe verso l’esterno e si tuffò in acqua. Iniziò a prendere le meduse per la testa e a lanciarle lontano, creando una sorta di corridoio, poi tornò verso la barca. Gaetano aveva preparato l’arpione da pesca. Mi tolse il cappello del nonno, poi mi sollevò per le ascelle. “Sei pronta?”. Mi calò come un pacco e incontrai l’acqua gelida.

Quel mare era l’unica cosa che rispettava. 

Sentii la pelle d’oca pizzicare e i muscoli che si contraevano. Solo molti anni più tardi avrei indossato per la prima volta una muta, per immergermi con la bombola a trentadue metri. Gaetano gettò in mare tre maschere in cui aveva già sputato prima di scivolare in acqua. Assistetti alla caccia aggrappata alla sua schiena. Mi teneva a pelo d’acqua perché le meduse non mi toccassero, anche se la corrente ormai le aveva portate lontano. La pesca andò bene, prendemmo tre pesci grossi e un polpo. I primi finirono a sbattere le code contro un secchio,  mentre il piccolo polpo fu affidato alle mie mani perché l’avevo visto io per prima. Erano le sei di sera, non c’era più mare. Iniziai a giocare con il polpo, lo presi tra le mani e subito lui avvolse i tentacoli attorno al mio braccio. Le ventose mi facevano il solletico, i suoi occhi parevano acquosi e buoni. In un attimo era molto vicino, i tentacoli sembravano essersi accorciati. Poi mi morse sulla spalla. I polpi hanno un unico dente sotto la testa, in quello concentrano tutta la loro forza. Per il mio braccio di bambina forse non l’aveva nemmeno usata tutta, magari non voleva farmi male. Urlai e scossi il braccio, lo tirai dalla testa. Lui allentò la presa e atterrò senza rumore sul fondo della barca. Guardandolo lì in basso, con i tentacoli raggomitolati, mi sentii subito in colpa. Io ero piccola, ma lui era più piccolo di me. O forse era una lei. Il mio braccio destro era pieno di segni rossi lasciati dalle ventose che sarebbero spariti a breve. Presi la punta di una treccia tra le dita e la posai sul segno del morso. Era fresca e bagnata, la premetti leggermente e l’acqua salata colò come da una spugna sulla ferita.
Gaetano e mio nonno mi guardavano, in piedi uno a fianco all’altro vicino al motore. Gaetano fece un cenno a nonno Enzo prima di lasciargli il comando. Venne verso di me e sentii una punta di paura immotivata, credo un timore che mi sgridasse. Lui sembrava più vicino al mare che alle persone. Il polpo giaceva ancora sul fondo della barca, si muoveva un po’. Non reagì quando Gaetano lo sollevò, i tentacoli si  arricciavano in punta e ricadevano subito senza toccare quel braccio. Mi alzai in piedi, seguendo l’animale con lo sguardo. Cercai le sue pupille tra le pieghe della testa per scusarmi, non le trovai. Ora il braccio di Gaetano era alto, teneva il polpo all’altezza del suo viso. “Hai fatto male alla picciridda?” Le vene della sua mano enorme si gonfiarono poco, non stava facendo alcuno sforzo. La sua faccia arrossata era immobile. Per un momento il suo sguardo andò oltre il polpo, verso il mare che continuava a scorrere veloce attorno alla barca in movimento. Quel mare era l’unica cosa che rispettava. E lo conosceva bene, aveva lavorato per tutta la vita alla tonnara, questo me l’aveva detto mia mamma. Il polpo non riusciva più a muovere i tentacoli, così abbandonati sembravano lunghissimi. Sembrava che tutto il suo essere si stesse sciogliendo. Qualche goccia d’acqua che per tutto quel tempo si era ostinata a stare attaccata alla sua pelle viscida si arrendeva, percorreva le ventose e cadeva sui miei piedi nudi. Con uno scatto del polso Gaetano lo gettò in mare e lui rimase a galleggiare per un po’,
ce lo lasciammo indietro. Avrei voluto correre a poppa, sporgermi e vederlo nuotare verso il fondo, ma qualcosa mi tenne ferma. Non volevo fare brutta figura con Gaetano lu siccu, mi vergognai di quel pensiero. Prima di riprendere il timone Gaetano fece penzolare la mano nell’acqua. Mi mandò due schizzi con le dita, ridendo. “Non fare quel faccino, picciridda, ne abbiamo già assai per la cena”. Nonno si sedette accanto a me a prua, eravamo quasi arrivati. Non ci scambiammo una parola, Gaetano fischiettava un motivetto nuovo. Il morso era rosa e lucido, ma non sentivo più male. Il tragitto delle ventose era sbiadito. Pensai che quel polpo aveva lo stesso colore delle meduse ma era più buono. Pensai che avrei voluto abitare il mare come lui. Prima che lo catturassimo stava esplorando con i tentacoli gli anfratti di uno scoglio, anche lui come noi si stava procurando la cena. Ne vidi molti altri negli anni successivi, quando iniziai a immergermi sul serio.
Sembravano ancora più eleganti quando nuotavano nel mare profondo e nero. Però il polpo che ho scelto e che ho tatuato a fianco al seno, con i tentacoli in alto e le ventose ben visibili, è quello che in un pomeriggio d’estate a un passo dal mare ha giocato con me, quando ero picciridda.

 

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