Un giorno con Menière

Racconto scritto in occasione del corso di scrittura creativa della Sicily Summer School 2019

di Ramona Aloia

La porta comincia a spostarsi lentamente verso sinistra.
Dio no, ti prego, di nuovo no!
Respiro nervosamente.
Provo tre volte prima di riuscire a inserire la chiave nella serratura ed entrare.
Lascio cadere a terra le buste con la spesa.
Comincio a rovistare freneticamente dentro la borsa, tenendo lo sguardo fisso in avanti per evitare ogni minimo spostamento.
“Non esiste una cura”, ripeto le parole dell'otorino per convincermi che non c'è niente che possa fare, neanche stavolta. Devo solo aspettare che passi. Ma come faccio? È la quinta volta solo questo mese! Come posso pensare di vivere tutta la vita così?
Mi sforzo di tenere gli occhi aperti, ma è inutile. È già troppo tardi.
Sono finita nella tana del bianconiglio e sto precipitando a testa in giù. 
Trovo il telefono e pigio sull'ultima chiamata.
“Amore non posso parlare ora, ti chiamo dopo.”
“Aspetta, non chiudere”, le parole mi restano appiccicate alla lingua.
“Che succede?” sbuffa e io stringo i pugni, odio doverglielo dire.
“Ho le vertigini.”
“Di nuovo? Non è possibile! E ora come cazzo facciamo? Devo lavorare, lo sai!”

Sono finita nella tana del bianconiglio e sto precipitando a testa in giù. 
 

Non riesco a rispondere, una forte pressione all'orecchio mi stringe la testa in una morsa.
“L'hai voluto tu! Sei voluta andare via e ora te ne stai da sola e aspetti che passi, tanto lo sai, non possiamo fare niente, perciò non lamentarti!”
Scaravento con rabbia il telefono sul divano. Sento ancora la voce di Roberto che urla il mio nome. Mi maledico per averlo chiamato.
Allungo le braccia, muovendo le mani in maniera scomposta nel tentativo di afferrare una sedia. La trovo e mi aggrappo trascinandomi in veranda in cerca del secchio. 
Mi sembra di camminare su un materasso ad acqua, ogni movimento mi provoca una forte nausea. 
Mi lascio cadere sul divano stringendo il secchio in un abbraccio. 
La compressa di betaistina non sortisce alcun effetto. Mi chiedo perché mi ostini a prenderla ancora.
Un caldo asfissiante precede il primo conato di vomito. 
Di Menière non si muore. 
Poi il secondo. Il quinto. Ho perso il conto. 
Sento la maglietta impregnata di sudore incollata sulla pelle che mi comprime il petto, me la strappo con furia. 
Mi sollevo di scatto per vomitare, ma mi sbilancio troppo e cado a terra. Ho l'impressione che ogni cosa mi stia precipitando addosso. Mi ripeto che sono ferma e anche tutto il resto lo è, ma non funziona.
Ho paura, il mio cuore se ne accorge e accelera, il respiro si fa più corto. 
Sono esausta. 
Emetto un urlo stridulo, vomitare mi fa bruciare lo stomaco e la gola. 
Sento formicolare le mani per lo sforzo. Ho la sensazione di stare perdendo il controllo del mio corpo: la testa, le gambe, le braccia, non le sento più mie. È una punizione, forse? 

Intravedo una crepa nella sua voce. La riconosco.

Rido nervosamente al pensiero di essermi sempre definita una persona “equilibrata”, con i piedi “ben piantati a terra” e ora mi ritrovo sottosopra, con la stanza che gira vorticosamente, incapace di trovare un appiglio. 
È uno scherzo, vero? Lo dico a voce alta forse perché spero che qualcuno possa sentirmi.
Non ho idea di quanto tempo sia trascorso, ma già mi sento sfinita. 
Alla mia destra percepisco un bagliore e capisco che lì c'è la finestra. Per un attimo penso che sarebbe meno doloroso buttarsi.
Di Menière non si muore, ripeto ancora, eppure, sento qualcosa dentro di me che vorrebbe scomparire. 
“Sta' calma, smettila” mi dico e con grande sforzo mi aggrappo al divano. 
Provo a mettermi seduta, mi sembra che qualcuno mi abbia afferrato per le spalle e scosso violentemente. Vomito di nuovo reggendomi al secchio come a un amico. 
Faccio un ampio respiro, lo trattengo e apro gli occhi: vedo la Notte Stellata di van Gogh e le sue pennellate frenetiche, la cucina di casa mia è dipinta nello stesso modo, ma non scorgo gli stessi colori brillanti. 
Richiudo subito gli occhi, averli aperti ha ribaltato il mio stomaco e l'ha scaraventato al posto del cuore, il cuore al posto del cervello, il cervello al posto dello stomaco. 
Anche i miei pensieri sono in subbuglio. 
Non resisto più. 
Un acufene incessante nell'orecchio destro mi impedisce di sentire qualsiasi suono. Sembra il fischio di un arbitro impazzito. Quale grave fallo avrei commesso?
Sento le gocce di sudore solleticarmi la fronte come lacrime silenziose. Penso che tutto il mio corpo stia piangendo adesso, inerme, nella sua completa solitudine.
Suonano alla porta. È Roberto. Ma io non rispondo, non ci riesco, o forse non voglio farlo.
“Ramona apri! Mi stai facendo preoccupare!” 
Avverto in lontananza il tonfo dei pugni sulla porta.
“Ora che cazzo faccio dietro la porta? Mi spieghi...” 
“Non ce la faccio!” urlo pensando di aver terminato l'ultimo grammo di ossigeno nei polmoni.
“Amore, ti prego, prova ad aprire. Sono qui per te.” 
Intravedo una crepa nella sua voce. La riconosco.
Allungo le braccia e ritrovo la sedia. L'afferro e mi appoggio con tutto il peso. Sbatto più volte, inciampando tra le buste della spesa, ma riesco ad arrivare davanti alla porta e ad aprirla. 
Lui mi afferra e mi solleva prima che crolli a terra sfinita. 
Mi appoggia delicatamente sul divano, poi prende il secchio e si dirige in bagno per svuotarlo.
“Quanto sei sexy” mi dice accarezzandomi il ventre con un dito.
Istintivamente allungo la maglietta strappata nel tentativo di coprirmi, sorrido per la prima volta. 
Cado in un sonno leggero e mi risveglio continuamente colta da conati improvvisi. 
Sono passate sette ore. Apro gli occhi. 
La cucina è di nuovo al suo posto: il pavimento, il tavolo, le sedie, perfino il tetto. L'immagine è così statica che fatico a riconoscerla. 
Roberto è ancora seduto accanto a me, mi scruta con un sorriso incerto. So che sta aspettando.
“È finita”, lo fisso perché gli arrivi la conferma dai miei occhi vigili.
Mi sorride sollevato, lasciandosi cadere mollemente sullo schienale del divano.
Io vorrei ricambiare il suo sorriso, ma riesco solo a piangere. “Ascolta” gli dico.
“Cosa?”
“Il silenzio.”

 

 

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