Il salvagente

Può l'amore vero fermare il tempo?

di Ramona Aloia

Alla trattoria “Il borgo marinaro” il Natale durava tutto l'anno.
Livia e Mario sedevano attorno a un piccolo tavolino azzurro, vicino alla grande porta a vetro ricoperta da lucine colorate. L'arredamento era in stile marinaresco, con reti bianche appese alle pareti su cui pendevano conchiglie e stelle marine. Il bancone del bar era stato ricavato da una mezza prua di un vecchio peschereccio; accanto alla cassa, un albero di Natale ricoperto di palline blu e argento.
I commensali erano tutti del luogo, tutti tranne Livia, passata da lì per far visita ad alcuni parenti.
“I giorni insieme a te corrono il doppio di tutti gli altri giorni”, Mario seguiva il ticchettio inarrestabile delle lancette del suo orologio, non sopportava l'idea che dopo pochi minuti Livia sarebbe andata via.
“Ti va di provare a fermare il tempo?” chiese lei estraendo una vecchia polaroid dalla borsetta.
Mario sorrise in gesto di assenso e avvicinò il suo viso barbuto accanto a quello di lei puntellato di lentiggini.
Passarono pochi secondi prima che l'immagine dei loro volti innamorati si imprimesse nella carta.

“I giorni insieme a te corrono il doppio di tutti gli altri giorni”

“Guarda Livia, guarda come siamo belli. E guarda qui, avevi notato quel salvagente appeso alla parete sopra le nostre teste? Sembra che sia lì a dirci che solo rimanendo insieme siamo al sicuro.”
Lei lo guardava senza smettere di sorridere.
“L'averti incontrata così, per caso, è un miracolo. Tu mi hai salvato, Livia.”
“No, sei tu che hai salvato me. Dalla noia, dalla paura, da me stessa.”
“Allora promettimi che non ci perderemo.”
“Non lo faremo Mario, te lo prometto. Ci scriveremo delle lettere, tantissime lettere, e quando potremo, prenderemo il primo treno per vederci.”
Mario tirò fuori una penna dal taschino e scrisse il suo indirizzo sul retro della piccola istantanea, poi la porse a Livia che a sua volta la poggiò sul petto, come se quell'immagine avesse potuto trapassarle la pelle fino ad arrivarle al cuore.
“È tardi” sospirò “è quasi l'una e mezza, devo andare.” Livia chiuse gli occhi nel tentativo di trovare il coraggio per alzarsi e andar via.
Quando li riaprì, il mondo che conosceva smise di esistere. Non erano i suoi sogni a sgretolarsi, ma le pareti, non era la sua vista ad annebbiarsi, ma la polvere che aveva intrappolato l'aria, non era la paura a farle tremare le gambe, ma il pavimento che cedeva sotto ai suoi piedi, non era la sua voce che urlava “aiuto”, ma quella della gente che le stava attorno.
Livia rimase immobile mentre ogni cosa franava insieme alle sue certezze; stringeva le mani attorno alla testa che pulsava. Ogni cosa crollava a terra in frantumi, eppure, lei non si muoveva. Qualcuno dovette prenderla per un braccio e trascinarla fuori.
La strada era un cumulo di macerie, alcune donne piangevano riverse a terra mentre gli uomini si muovevano freneticamente cercando di prestare soccorso ai feriti.
Il paesaggio aveva perso tutti i suoi colori, era rimasto solo il grigio della polvere e della fine.
Livia vide una donna gridare il nome di un uomo. Il dolore di quella donna le strappò il nodo che le stringeva la gola e anche lei prese a urlare un nome: Mario.

Il paesaggio aveva perso tutti i suoi colori, era rimasto solo il grigio della polvere e della fine.

Corse zoppicando all'interno di quello che era rimasto della trattoria. Prese a scavare con le mani nude tra i detriti. Le sue dita erano ricoperte di lacrime rosse e fango ma lei non smetteva di scavare. Esausta, si lasciò cadere su un pezzo di legno simile a una sedia dove poco prima posava fragile la sua felicità.
Attaccata a una scheggia, Livia scorse una piccola istantanea in bianco e nero: lei e Mario seduti al tavolo di una trattoria e un grande salvagente che sormontava le loro teste. In basso una scritta a penna: 15 gennaio 1968, Gibellina.
Livia non parlò mai di quel terribile terremoto che distrusse la Valle del Belice e insieme a lei tutti i suoi sogni. Non tornò più in Sicilia, nemmeno per andare a trovare alcuni cugini sopravvissuti alla sciagura che ormai vivevano in zone limitrofe a quelle che il sisma aveva spazzato via. Sembrava quasi che quell'episodio traumatico della sua vita non fosse mai accaduto o che, in qualche modo, fosse riuscita a dimenticarlo per sempre; almeno così credeva.
Sua nipote Viola era appena ritornata dal viaggio di istruzione in Sicilia. Entusiasta, aveva chiesto alla nonna di sedersi accanto a lei ad ammirare le fotografie scattate durante la vacanza.
“Nonna, che ti prende?”
Livia prese ad asciugarsi gli occhi con il lembo del grembiule. Con un gesto distratto della mano incoraggiò sua nipote a proseguire senza darle spiegazioni.
Viola strisciava il dito sullo schermo del suo smartphone freneticamente, le foto erano centinaia, ritraevano numerose spiagge, musei, chiese, parchi, nulla era riuscito a sfuggire alla curiosità dei suoi occhi.
Livia non aveva il tempo di assimilare quei colori, i ricordi l'avevano riportata lontano, in posti che la sua memoria conosceva ancora molto bene.
“Ferma, torna indietro.”
Viola cominciò a scorrere a ritroso le fotografie.
“Più indietro, più indietro, mi è sembrato di aver visto qualcosa...” Livia afferrò il telefono di sua nipote e rimase in silenzio a fissare lo schermo, gli occhi piccoli segnati da solchi erano diventati antichi torrenti d'acqua.
Viola la guardava stranita. Non capiva cosa ci fosse di così commovente in una foto che ritraeva una ringhiera su cui era poggiato un salvagente a forma di ciambella, eppure, sembrava che sua nonna avesse ritrovato qualcosa che aveva perso tanto tempo fa, qualcosa che aveva dimenticato ma che le era da sempre appartenuto.
Non fu difficile trovare la casa col balcone e il salvagente, fu sufficiente seguire le indicazioni di Viola e di alcuni abitanti della zona.
Erano passati quarant'anni dall'ultima volta che Livia era stata in Sicilia, e ora, contro ogni aspettativa, si trovava a Trapani di fronte alla porta di uno sconosciuto con uno strano balcone da cui appariva un salvagente identico a quello della trattoria “Il borgo marinaro”; con un dettaglio nuovo sulla superficie, una data: 15/01/1968.
Livia suonò il campanello e dopo pochi secondi apparve un signore barbuto privo di espressione.
Lei, senza nemmeno salutare, allungò la mano che teneva la vecchia istantanea e gliela porse. Mario  non distolse gli occhi dalla fotografia per un tempo che parve infinito, poi alzò lo sguardo verso Livia e sorrise: “Finalmente, siamo salvi”.

 

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