Guerra

Racconto scritto in occasione del corso di scrittura creativa della Sicily Summer School 2019

di Alessia Martino

 

«‘A verra è verra pi’ tutti ».

La mamma lo ripeteva ogni mattina, con un misto di pena e incredulità, quando attraversavamo Largo delle Sirene per andare a sbrigare le commissioni della giornata. C’era sempre qualcosa di cui stupirsi: chistiani che prima guardavano tutti dall'alto al basso, e ora elemosinavano il pane;  rispettabili, giovani vedove che sfilavano sotto gli occhi voraci dei soldati tedeschi. Non sempre erano giovani, in realtà, e nemmeno vedove.

Era guerra per tutti, persino per noi. Il nome della nostra famiglia competeva in fama con quelli delle famiglie più illustri di Trapani. La nostra azienda, una piccola industria per la conservazione del pesce, prima della guerra dava lavoro a una decina di padri di famiglia, ma era ormai chiusa da mesi. Anche la nostra putìa in via Carolina era prossima a subire la stessa sorte. Io e la mia famiglia abitavamo poco distanti da questa, in una piccola casa che si affacciava, insieme a quelle delle mie zie e a quella del nonno, su una corte lastricata dove in estate pranzavamo e cenavamo tutti insieme. Era una delle poche cose che la guerra non ci aveva portato via. Si conzava una lunga tavolata a ferro di cavallo, alla quale sedevamo tutti insieme.

La mamma aveva due sorelle e un fratello. Zio Paolo, oltre ad essere l'unico maschio, era anche il più piccolo di loro: aveva appena dieci anni in più di me, ed ero cresciuta attaccata alle sue gambe. Fra i cinque nipoti, ero la sua preferita in assoluto e non perdeva mai occasione di farlo notare e di creare così gelosie tra noi bambini.

Zio Paolo era un ragazzo magro e forte, con folti ricci scuri e un grande sorriso che incantava. Le sorelle l'avevano cresciuto come un figlio: erano rimasti orfani di madre che lui era piccolissimo.

Il nonno, poi, lo amava in modo speciale: zio Paolo era il suo orgoglio, il desiderato figlio maschio dopo le tre fimmine. Era tutta la sua vita.

Allo scoppio della guerra, zio Paolo aveva da poco compiuto diciannove anni. Il nonno fece di tutto per sottrarlo alla chiamata. Lettere, telegrammi, raccumannazioni. Provò qualsiasi modo. Rischiò pure di mettersi nei guai, quando una volta offrì un grosso regalo a un potente affiliato del Partito. Ma, alla fine, non ci fu nulla da fare: la cartolina arrivò lo stesso. Ricordo che in casa scoppiò il finimondo: lacrime, preghiere, raccomandazioni a tutti i santi. Ebbi la sensazione che, fino a quel momento, la guerra ci avesse solo sfiorati. Adesso, era veramente scoppiata.

Lo zio prendeva tutti in giro. «Già pi morto mi chiancite!», si lamentava e scherzava, anche se nei suoi begli occhi scuri si poteva cogliere una densa ombra di inquietudine. Nei giorni di preparazione alla partenza, spesso si esibiva in scenette grottesche nelle quali mi coinvolgeva sempre. La sua preferita era quella del bisito: lui si sdraiava a letto, supino, con le braccia incrociate al petto, e io dovevo stare al suo capezzale con dei fiori in mano e un fazzoletto nero della mamma sulla testa, a compiangerlo. Finiva sempre che una delle donne di casa ci cacciasse via tirandoci una tappina addosso.

Il giorno del distacco, infine, arrivò. Tutta la famiglia si radunò nel cortile per i saluti. Quando arrivò il mio turno, lo zio si chinò per abbracciarmi, e mi strinse forte. Mi lasciò un bacio sui capelli, e per la prima volta in quei giorni mi venne voglia di piangere.

Il nonno volle accompagnarlo da solo alla stazione. Quando tornò a casa, era taciturno, con una faccia tirata tirata.

Il suo volto anziano si rianimava solamente quando arrivavano le lettere. Di volta in volta era un tuffo al cuore per tutti, perché si temeva sempre il peggio.

Quando finalmente lo zio ottenne la prima licenza e tornò a casa, fu una grande festa: in quei pochi giorni, sulla nostra tavola ricomparvero alimenti che non si vedevano da mesi. Il nonno, radioso, non si staccava mai dal figlio.

Lo zio era più magro, ma stava bene. Raccontò poco di dov’era stato e di quel che aveva fatto.  Sembrava provato, ma era felice di essere di nuovo a casa. Nonostante i bombardamenti e gli stenti, in quei giorni, c’era sempre qualcosa per cui sorridere.

Prima di ripartire, lo zio mi strinse forte. Mi attaccai al suo collo, chiedendogli di non lasciarmi. Ma lui ripartì lo stesso, e insieme a lui, sparì la vita e la gioia da casa nostra.

L’inverno trascorse lento e crudele. C'era fame, ovunque. Erano giorni tristi.

Dopo tre mesi, finalmente, un’altra licenza. Lo zio stavolta tornò con delle stampelle e qualche ferita, con la faccia magra magra.

Le ferite non erano gravi; dopo qualche giorno, capimmo che non era di quelle che dovevamo preoccuparci. Non aveva appetito, e passava gran parte del suo tempo rinchiuso in camera, a letto, al buio. Nonostante gli sforzi di tutti, non si riusciva a farlo uscire di casa. Era diventato solitario e scucivulo. Non sembrava nemmeno lo zio mio. Riuscivo solo a trascinarlo in cortile, con la scusa di fare allenare la gamba in convalescenza. Sembrava invecchiato di vent’anni.

Una volta sentii il nonno chiedergli cosa fosse successo. Lui lo guardò con occhi vuoti. «A’ verra fa schifo», disse solamente, con un filo di voce.

Nel giro di qualche settimana, le ferite guarirono completamente. Il medico disse che poteva ripartire.

Era una caldissima giornata di luglio. Io aiutavo la mamma a lavare i piatti in cortile, nella grande pila di marmo, mentre le zie arrisittavano. Il nonno sonnecchiava sulla sedia, all’ombra della vite rampicante.

D’un tratto, la quiete fu squarciata da un botto assordante. In una frazione di secondo pensai alle bombe, agli aerei, ai carri armati. Istintivamente, corsi a rannicchiarmi contro lo stipite della porta d’ingresso di casa. Le fimmine strillarono, spaventate. Il nonno si svegliò di soprassalto, guardandosi attorno.

Non so come fece a capire. Qualcosa dentro di lui era scattato, di colpo, contemporaneamente a quell’assordante detonazione. «Paolo», disse solamente, e si fiondò in casa. Qualche attimo dopo, udimmo un grido. Rimasi dov’ero, terrorizzata, mentre la mamma e le zie correvano in direzione del nonno. Sentii le loro urla e i pianti. «Paolo! Paolo!» gridavano tutti, e piangevano, e gridavano, «Chi faciste, Paolo?!».

Aspettavo di sentire la voce dello zio. Il cuore mi ribatteva nelle orecchie, coprendo i lamenti disperati che provenivano da casa. Ripensai alla pistola che avevo visto un giorno in camera dello zio, a quando lo vidi passarsela tra le mani, per poi nasconderla sotto il cuscino non appena si accorse di me.

Mi coprii le orecchie con le mani, e iniziai a piangere anche io.

Il nonno divenne un fantasma. Ci guardava tutti con distacco, come se non esistessimo neppure.

Le uniche reazioni che aveva erano quando, alla sera, sentivamo le notizie alla radio. Dal suo angolo di solitudine, lo sentivamo imprecare a bassa voce. Scuoteva la testa, poi, e si nascondeva gli occhi dietro la grossa mano callosa.

Agli inizi di marzo, la radio iniziò a dare notizie di rivolte e disordini nel nord della penisola, tutte soffocate sul nascere. Eppure, le voci che circolavano erano altre.

Ai discorsi quotidiani si aggiunsero dei nuovi protagonisti: l’americani. Era chiaro che qualcosa stesse cambiando: si respirava un’aria di tensione nelle strade, lo si coglieva negli strani movimenti dei soldati tedeschi, nel nervosismo che avevano negli occhi e li rendeva ancora più odiosi e tinti.

Era quasi passato un anno dalla morte dello zio, che arrivò la notizia dell’attacco degli inglesi a Pantelleria. Iniziò a diffondersi il terrore non solo fra gli occupanti, ma anche fra la popolazione. La mamma iniziò a preparare i bagagli in vista di un possibile sfollamento, che fino a quel momento avevamo evitato. In mezzo a quel clima inquieto e irrespirabile, il nonno continuava ad essere impassibile.

Meno di un mese dopo, gli Alleati sbarcavano in Sicilia.

Iniziò uno scappa scappa generale. I primi a partire furono gli ufficiali: li vedevo uscire dalla città su automobili stipate di bagagli, seguiti a ruota dalle camionette e gli altri mezzi militari con i soldati semplici. Nel giro di una settimana, niente più divise in giro.

Rimasero solamente una manciata di soldati nel loro quartier generale, al Lazzaretto. Mi facevano quasi tenerezza: erano tutti giovanissimi, dai volti puliti, e in quelle divise sembravano fuori posto e a disagio. Non era difficile capire, anche per una bambina, che avevano paura e che odiavano quella guerra esattamente come me.

Anche loro, dopo qualche giorno, sparirono. Il Lazzaretto restò vuoto e silenzioso.

Qualcuno disse che era rimasto un solo soldato, che adesso si aggirava disorientato e spaventato. «Si l’attrovano l’americani, si lu manciano», era stato l'unico commento del nonno, in un tono del tutto incomprensibile. Quella sua affermazione mi aveva fatto venire u' scanto.

Un giorno, infine, i carri armati tanto temuti entrarono in città con un gran fracasso. Scoppiò il panico, perché non sapevamo quale sarebbe stata la nostra sorte. In pochissimo tempo però, quella che era sembrata l’ennesima invasione, si trasformò in una grande festa.

La guerra era finita, per noi.

Una notte, mi svegliai per via del caldo. Andai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, e vidi un’ombra muoversi nel cortile. Scostai di poco la tenda della finestra, e per poco non urlai. Seppure sporca e strazzata, riconobbi la divisa tedesca addosso a quello che sembrava poco più che un ragazzo. Si guardava attorno scantato. Poi, vidi il nonno.

All'inizio, non riuscii a capire cosa stava succedendo. Il nonno gli passò qualcosa.

«Veni ccà, cànciati», gli disse, a bassa voce. Quello ovviamente non poteva capirlo, ma di certo aveva compreso i gesti. Incuriosita, rimasi a spiare la scena. Il ragazzo si spogliò frettolosamente della divisa, e si rivestì con quello che gli aveva passato il nonno.

Con un tuffo al cuore riconobbi, dalle iniziali sul taschino, una delle camicie dello zio. Gli occhi iniziarono a bruciarmi: quel ragazzo aveva la sua stessa statura, la stessa corporatura. Nella penombra della notte, sembrava davvero lo zio mio.

Il nonno si avvicinò al soldato e gli sistemò il colletto della camicia. Poi lo guardò e gli fece una carezza ruvida sul viso. «Figghio meo...». La sua voce era rotta dall’emozione.

Nascosta dietro la tenda, li guardai abbracciarsi.

Il nonno lo aiutò a fuggire, e nessuno seppe mai nulla.

Spezzato dal dolore di aver perso un figlio, aveva salvato il figlio di un altro.

Aveva vinto lui la guerra.

 

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